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Mi meraviglia il fatto che la Chiesa ci accompagni nel deserto quaresimale conducendoci, come prima tappa, al Tabor.

Come a ricordarci che solo salendo, prendendo un po’ le distanze dalle pianura delle mediocrità, dal caos del quotidiano, dalla fatica del lunario da sbarcare possiamo ritagliarci uno spazio in cui l’anima possa risvegliarsi.

E sul Tabor che riusciamo a raggiungere, con un paio d’ore di silenzio, o una passeggiata nel bosco, o un pomeriggio in monastero, la Parola può fare breccia nei nostri mille pensieri e condurci verso l’essenziale: la bellezza.

Tabor è sinonimo di bellezza. Non quella di riflesso che vediamo nelle opere d’arte, o quella ancora più di riflesso che cogliamo in un’armonia, un composizione, un’emozione. O quella ancora più di riflesso che abbiamo stabilito come canone estetico dei nostri tempi.

Tabor è sinonimo della bellezza stessa di Dio, della scoperta assoluta e limitata, possente e fragile che Dio è, ed è bellissimo. In quello spazio della nostra interiorità in cui non abbiamo necessità di ulteriori spiegazioni o ragionamenti o prove. Là dove possiamo, anche se solo per istante, fare esperienza della bellezza di Dio.

Quello è il nostro orizzonte, il nostro obiettivo, la nostra meta, la meta della vita, non solo del cammino quaresimale.

Fare esperienza della bellezza di Dio.

 

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