La foto passa da una persona all’altra, con calma.
I pellegrini restano assorti a fissare quell’immagine. Alcuni si commuovono. Arriva anche da me. Il vicino mi passa il telefono senza incrociare il mio sguardo, evidentemente turbato. Faccio un respiro profondo. Due bellissime ragazze a mezzobusto, in un’unica immagine che le ha unite in momenti diversi.
Carnagione scura, capelli corvini, sembrano sorelle. Una più giovane, forse undici anni, l’altra di qualche anno in più. Sorridono all’obiettivo, gli occhi pieni di luce. Indugio lungamente sul loro sorriso. Sulla loro felicità. Sull’incoscienza della loro pre-adolescenza.
Una è israeliana. L’altra palestinese.
La prima è morta a quattordici anni, in una via di Gerusalemme, uccisa insieme ad altri da un attentatore suicida che si è fatto esplodere alla fermata del bus. La seconda è stata uccisa da un colpo di fucile alla nuca, tirato da una distanza di quindici metri da un soldato israeliano sul confine.
Due rondini strappate al loro volo da una guerra fratricida assurda e infinita.
Sami e Bassam, i loro papà, ci stanno raccontando la loro vicenda.
Fanno parte dei Parent’s Circle (www.theparentscircle.org), un’associazione raduna i famigliari di vittime di entrambi gli schieramenti, che insieme raccontano la loro atroce vicenda, senza far pesare il dolore.
Sami racconta del suo lutto devastante, dell’aiuto di un rabbino che lo ha portato a superare l’odio e la violenza.
Bassam ci dice di come, con altri ragazzini, a tredici anni ha tentato una sorta di azione militare contro una pattuglia israeliana con vecchi fucili che nemmeno sapevano usare. Si è fatto sette anni di carcere duro, gli amici ventuno. Durante il carcere ha visto un film sulla Shoa e, ammette di avere provato un senso di vendetta. Uscito dal carcere ha voluto andare a fondo ed ha preso un dottorato di ricerca in Inghilterra proprio sulla Shoa. E ha cambiato molte idee. La sua lunga lotta pacifista è stata messa a dura prova quel giorno in cui una dei suoi sei figli è stata uccisa ad un check-point.
La pace è possibile dicono a tutti i giovani universitari israeliani e palestinesi che incontrano, stupiti già solo dal fatto di vederli insieme chiamarsi “fratello”. Perché sono davvero diventati fratelli e i loro figli sono cresciuti insieme.
I pellegrini con me sono frastornati da tanta violenza, da tanta umanità, da tanta testimonianza.
Sì, certo, la pace è possibile.
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