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Un po’ viandante mi sento. E mendicante. E mercante.

Nelle settimane di evangelizzazione, quando mi trovo qualche ora da solo, provo a mettere a fuoco le emozioni e i sentimenti che si assommano, travolgenti, impetuosi. Faccio il non-lavoro più incredibile del mondo.

Porto la Parola, la consegno, la regalo, la offro.

Così incontro migliaia di persone, preti, comunità, situazioni. E vedo posti bellissimi. E speranze e problemi, e difficoltà e storia su storia, storie su storie, percorsi e aneliti.

Don Giulio e don Bruno mi avevano invitato già qualche tempo fa e subito avevo accettato con quell’idea un po’ romantica e infantile di portare qualcosa a sostenere gli aquilani. Ma solo una dioincidenza poteva farmi arrivare qui nel decimo anniversario del terremoto.

Ho chiesto di venire il giorno prima della lectio per vedere, ascoltare, accogliere. Si fa in fretta a capire, qui. Tutto ricorda cosa è successo anche se, come vedo con i miei occhi, tantissimo è stato fatto. Ma tanto tanto.

Mi portano a vedere capolavori d’arte, mi sfinisco di arrosticini, parlo, ascolto, vedo, passeggio. L’Aquila geme, con le sue 99 chiese e 99 fontane. Città nata come compromesso di molte sensibilità, come feudo di aggregazione, fiera e tenace. E proprio questa aggregazione, oggi, fatica a risorgere dalle macerie ormai sgombre.

Ascolto la preoccupazione di questi due parroci.

Il terremoto è rimasto nel cuore della gente. E ogni anno si resta ancorati lì, a quegli oltre trecento morti (trentamila nel terremoto del Settecento), le case distrutte, la vita stravolta. Anche i preti hanno vissuto il trauma della loro chiesa crollata, delle ferite, della vita nelle tendopoli, della ricostruzione.

Ma hanno chiamato me per aiutare le comunità a guardare oltre. A non vivere da terremotati per sempre. A non fare del ricordo, santo e bello, un peso, un idolo, un drago.

La Parola ci illumina, scuote, incoraggia.

Parlo alle tante persone ancora stropicciate dai ricordi e dalle celebrazioni a partire dalle nozze di Cana. Prima racconto dei terremoti che san Matteo pone nel suo Vangelo. Due, per essere precisi: uno alla crocifissione e uno alla resurrezione. Terremoti dell’anima, nel suo caso.

E parliamo dell’assenza del vino della felicità e dei servi e della figlia di Sion e delle giare. Non siamo noi a dover trasformare l’acqua in vino, ma Dio. Ciò che possiamo fare è riempire le giare fino all’orlo, fare del nostro meglio, investire, crederci.

Il terremoto della croce gli aquilani lo hanno vissuto.

Ora si tratta di attendere il terremoto interiore della resurrezione. Quello che ci fa allontanare in fretta dai nostri sepolcri.

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