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Trentatreesima domenica durante l’anno

Dn 12,1-3 / Eb 10,11-14.18 / Mc 13,24-32

Non la fine, ma il fine

 

Ecco, ci siamo.

È la fine. O l’inizio della fine. O comunque più o meno.

Ma ci siamo.

Leggendo la pagina del vangelo di oggi sentiamo stringere il cuore e la mente subito si attiva proiettando immagini di scene catastrofiche, di meteoriti che provocano la distruzione totale. E anche i segni di cui parla Gesù sembrano realizzarsi. 

Guerre infinite, miseria dilagante, la pandemia che ancora non è sconfitta, i poveri del mondo che premono per entrare in quelle che pensano essere terre di fortuna, violenza, mancanza di rispetto, aggressività, rabbia, contrapposizione finanche nella Chiesa e fra i suoi responsabili…

Sì, direi che ci siamo: è proprio la fine del mondo.

Verissimo. È la fine di questo mondo.

Di un mondo costruito sull’inganno, sul narcisismo, sulla spavalderia.

Fine.

Perché è già iniziata un’altra Storia, quella vera, quella nascosta dietro le cose che ci sembrano evidenti. Si tratta solo di saperla leggere.

Solo.

 

 

Declino 

La comunità di Marco, evangelista che ci ha accompagnato in quest’anno, è in grave difficoltà: l’Impero romano attraversa una crisi profonda, sembra essere in dissoluzione. La situazione è molto simile a quella che stiamo vivendo, di fine impero, di passaggio. Alcuni esegeti sostengono addirittura che Marco abbia riaperto la sua opera conclusa per inserirvi un capitolo nuovo, il tredicesimo, nato proprio per rassicurare i discepoli.

Il linguaggio è quello in uso all’epoca di Gesù, fatto di immagini enigmatiche e di iperboli, non da prendere alla lettera ma da interpretare correttamente. Ed è un messaggio di speranza che non spaventa ma rassicura: cadono le stelle, cioè gli astri venerati dalle religioni pagane. 

Non si parla della fine del mondo ma del declino del paganesimo, di una fede che vede negli astri una minaccia o una divinità. Cade l’Impero, certo, ma cade anche una visione superficiale e superstiziosa di vedere Dio. Era l’ora.

La piccola fede cristiana è protetta dal suo Signore, non ha nulla da temere.

Le sue neonate comunità sono il tenero germoglio del fico che porta frutti, infine.

Non come quello sterile del tempio. Ma quello rigoglioso alla cui ombra i rabbini scrutano la Parola.

Good news, God news

La fede c’è ancora, certo, ma spesso superficiali ed emotiva, piccina e mondana, litigiosa e partigiana.

E aggredita e assediata da modi altri di vedere il cristianesimo, spesso come una minaccia o l’ingombrante retaggio di un passato da superare.

Confidiamo fiduciosi, dice Marco, ciò che crolla sono gli astri, non la Chiesa. 

Le chiesuole arroccate sulle proprie posizioni, non le comunità che non riducono la fede a retaggio sociale.

Anche nella nostra fede, ciò che crolla è ciò che abbiamo aggiunto, spesso allontanandoci dal Vangelo o, addirittura, tradendolo.

Crolli l’inutile. Resti l’essenziale e il vero.

Evviva.

E se tutto ciò che abbiamo vissuto, l’amore immenso che abbiamo sperimentato e messo nelle nostre azioni fosse pensato per affrontare ora questa tenebra e non cedere allo scoraggiamento?

Di più.

Angeli

Gli angeli arrivano dai quattro punti cardinali per radunare i discepoli.

E ne conoscono tanti, anche più di quattro. Uomini e donne che vivono nella profezia, che incoraggiano, radunano, motivano, soccorrono. Tanti che precedono e suscitano la venuta del Figlio dell’uomo, del Messia in cui abbiamo creduto e che, certo, tornerà nella gloria.

Angeli che incontriamo ogni giorno, ogni domenica, che radunano, invece di disperdere, che costruiscono, invece di demolire. Angeli che colmano.

Calma e gesso

Quando accadrà? Quando vedremo il Signore tornare? Quando il cupio dissolversi del mondo approderà alla gloria e alla definitiva manifestazione di Dio?

Non lo sappiamo, non possiamo saperlo, non dobbiamo saperlo.

Solo possiamo guardare al fico, l’ultimo albero a mettere le foglie, appena prima dell’estate. 

Il fico, nella Scrittura, richiama sempre alla Parola, alla Scrittura che è dolce al palato proprio come il frutto del fico. E Gesù richiama tutti ad accogliere la Parola che dimora, che resiste.

E noi, qui, dopo duemila anni, ancora scrutiamo la Parola, la assaporiamo, ce ne stupiamo, lasciamo che invada i nostri cuori, che invada le nostre menti.

Questa resta, frutto dolce al nostro palato, che dimora e ci illumina, che ci incoraggia e ci sprona, che ci rasserena e motiva, che ci accompagna per farci volare in alto e vedere.

Vedere l’opera di Dio che manifesta, inesorabile, nel dispiegamento del caos.

Altrove

Gesù ci ammonisce: la costruzione del Regno non è necessariamente semplice, non è un passaggio di gloria in gloria, essere travolti dal Vangelo ed iniziare il cammino di discepolato significa porsi in un atteggiamento di cambiamento perpetuo, di fatica nell’affrontare le contraddizioni del sé e del mondo. Il Regno subisce violenza, non si manifesta con adunate oceaniche e opere mirabolanti. 

Nel segno della contraddizione, della fatica si esplica il Regno, fra il già e il non ancora, allontanandoci dalla logica manageriale del successo misurabile che – ahimè – a volte si insinua anche nella logica ecclesiale.

Gli angeli radunano i discepoli dai quattro angoli della terra, coloro che affrontano con serenità la costruzione del Regno vengono radunati e sostenuti.  Solo la Parola e la certezza di avere sperimentato Dio o di averne intuita la presenza ci fanno andare avanti tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio. 

 

Occorre farne memoria, in questo tempo di sinodo, uscire dalle logiche del mondo per assumere lo sguardo di Dio su noi stessi e sulla storia.

No, non parliamo della fine del mondo ma del fine del mondo.

Che è quello di scoprirsi amato.

 

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